Che Stellantis fosse un’alleanza “equilibrata” tra PSA e FCA, lo hanno ripetuto tutti al momento della fusione. Ma oggi, a distanza di pochi anni, scopriamo che quel certo “equilibrio” andava bene solo quando i vertici avevano passaporto francese.
Per dirla in altro modo, finché c’era Carlos Tavares, portoghese naturalizzato francese, a “difendere gli interessi di Parigi” (così ha scritto nel suo ultimo libro), tutto procedeva senza polemiche. Bastava, insomma, che il baricentro sembrasse più vicino alla Senna che a Torino.
Ora che il nuovo CEO Antonio Filosa, manager napoletano con una solida carriera interna al gruppo, è salito alla guida, i toni sono cambiati. All’improvviso, sui social si parla di “presa di potere italiana”, di “epurazione dei Peugeot”, di “forza Italia” gridata nei corridoi, in una narrazione che oscilla tra la paranoia e il melodramma.
Un giudizio affrettato, con retrogusto coloniale
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Le critiche non aspettano i numeri, né valutano la direzione strategica. No: si giudica l’origine geografica del manager, come se fosse questo a determinare la competenza o l’efficacia. Filosa non ha ancora avuto il tempo di annunciare un piano industriale dettagliato, eppure viene già dipinto come l’artefice di un colpo di mano.
Il paradosso è evidente: quando un manager “difende gli interessi francesi”, in Francia parlano di “leadership“. Quando invece un italiano sale ai vertici, diventa una minaccia per l’identità del gruppo. È un doppio standard che svela un fastidioso nazionalismo selettivo, che mal si concilia con l’idea di un gruppo multinazionale, integrato e competitivo a livello globale.
I Peugeot, azionisti in ritirata volontaria

Al centro del racconto c’è anche la famiglia Peugeot, storica fondatrice del marchio, che viene descritta come vittima di una cacciata orchestrata da mano italiana. Ma la realtà è ben diversa: da tempo i Peugeot hanno scelto di diversificare i propri investimenti, spostando capitali verso settori finanziari e moda di lusso, mantenendo in Stellantis una partecipazione pari a circa 7,7% del capitale e 11,9% dei diritti di voto, attraverso la loro holding Peugeot 1810.
È una quota rilevante, ma non dominante, soprattutto rispetto a Exor, la holding della famiglia Agnelli, che controlla quasi il 16% del capitale, risultando oggi il principale azionista. Bpifrance, il fondo pubblico francese, segue con circa 6,7%, ovvero meno della quota Peugeot.
Insomma, nessuno ha “espulso” i Peugeot dal gruppo. Se oggi non siedono al centro della stanza dei bottoni, è per scelte autonome di ridimensionamento e per una governance che rispecchia gli equilibri industriali e finanziari attuali, non una scalata orchestrata da Torino.
Un gruppo globale non ha bisogno di patriottismi

C’è poi da dire, se non fosse chiaro a qualche francese che pensa di saperne più degli altri, che Stellantis non è più Peugeot o PSA, né solo Fiat o FCA: è un colosso globale, con marchi storici e impianti distribuiti su tre continenti. Pensare che un manager debba “difendere la bandiera” della sua nazionalità è una vecchia tentazione europea, che appartiene più al secolo scorso che all’economia di oggi.
Il ruolo di un CEO è guidare il gruppo verso l’innovazione, l’efficienza, la crescita sostenibile. Non “fare gli interessi” di un Paese. Chi ragiona ancora in questi termini mostra non solo mancanza di visione, ma anche una fastidiosa nostalgia per un potere industriale che, forse, non ha più gli strumenti per imporsi.
E allora sì, nei corridoi di Stellantis si parla anche italiano. Ma più che un problema, dovrebbe essere un segno di maturità europea. Chi ha paura di questo, probabilmente ha capito poco sia dell’industria automobilistica che dell’Europa che cambia.
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