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Auto cinesi: si può parlare davvero di “invasione” in Europa?

E' di questi mesi l'invasione delle auto cinesi in Europa ma i costruttori cinesi potrebbero non avere sempre la strada spianata dalla EU.

Da diverso tempo parliamo dei sempre più numerosi costruttori automobilistici cinesi che stanno arrivando in Europa, quasi tutti elettrici o comunque ibridi, ed è uscito anche il termine “invasione“.

Dal lato di chi scrive, più iperbolico che in senso stretto, ma in ogni caso è lecito pensare che da parte cinese ci sia una spinta molto aggressiva per accaparrarsi il mercato delle auto, in particolar modo quello elettrico, aiutati in questo sicuramente dalle politiche europee.

Troppo di parte?

Come premessa all’articolo, ribadiamo un concetto più volte espresso in redazione: noi non siamo contro nessun tipo di motorizzazione, ma più verso la libertà di scelta. E siamo anche per un’informazione quanto più veritiera possibile.

Partiamo quindi dalla decisione europea, quella che vorrà dal 2035 solo auto elettriche a batteria o idrogeno, per il motivo che conosciamo tutti: abbattere le emissioni di CO2. È importante sottolineare che si parla di anidride carbonica, visto che è il parametro scelto a Bruxelles ed è su questo che sono state prese le decisioni.

Spunto della riflessione è una recente intervista, pubblicata su ilGiornale, di Andrea Taschini, manager di lunga data con esperienze in aziende quali Bosch e Brembo. Taschini sostiene che evoluzione e sviluppo tecnologico abbiano bisogno di libertà di espressione, ovvero riprende in altre parole quanto detto anche da alcuni CEO e amministratori delegati di giganti automobilistici.

Luca De Meo, CEO del Gruppo Renault, ha di recente sostenuto che il nemico è l’inquinamento, e non un particolare tipo di motorizzazione; ed è lo stesso che ha sostenuto Toyota nel corso del suo annuale Kenshiki Forum tenuto a Bruxelles, per indicare la sua via per l’abbattimento delle emissioni che prevede sì l’elettrico, ma anche l’idrogeno e i carburanti sintetici.

europa

Taschini però sostiene anche che

la definizione ‘auto a zero emissioni’ è un falso ideologico che sta alla base del grande equivoco di tutta la transizione energetica”

e qui sta l’equivoco spesso utilizzato da chi è contro l’elettrico. Bisogna infatti indicare di che tipo di emissioni si parla: emissioni “allo scarico”, cioè quelle direttamente emesse dall’auto; o emissioni anche non allo scarico, comprendenti quindi tutto il processo produttivo e post-produttivo.

Spesso infatti si tende a fare il paragone ingiusto e sbagliato tra tutto il ciclo di produzione di un’auto elettrica e le sole emissioni allo scarico di una vettura endotermica, ma in questi casi è ovvio che devi tenere conto tanto della produzione e smaltimento delle batterie quanto dell’estrazione, raffinazione e distribuzione del petrolio e dei suoi derivati.

E come abbiamo dimostrato, le elettriche sono effettivamente meno impattanti delle auto endotermiche. Quello su cui eventualmente si potrebbe discutere è se il risparmio in termini di emissioni vale la pena, anche se molto si deve a una produzione elettrica europea ancora legata al carbone e, come dimostrano le decisioni folli prese in Germania niente meno che dai Verdi, cieca nei confronti del nucleare.

Le proprie responsabilità

Nel corso dell’intervista emergono altri temi che, però, non sono stati approfonditi e che lanciano delle accuse anche gravi senza però portare prove. Da una parte, infatti, il manager parla di scelte verso l’elettrico a causa di “lobby di Pechino“, addirittura di “forti pressioni” da parte della Cina per cui Bruxelles sarebbe vincolata e non potrebbe puntare su altro, idea che si è fatta più forte in seguito al Qatargate. Il problema è che, al momento in cui questo articolo viene scritto, non ci sono prove per sostenere finanziamenti cinesi per spingere sull’elettrico.

Da dove deriva l’idea non è difficile capirlo, e viene detta anche dall’intervistato:

Nasce da un forte lavoro delle lobby di Pechino la cui industria non riuscendo a sviluppare motori endotermici puliti secondo le stringenti norme vigenti in Europa in materia di emissioni, ha deciso per invadere il Vecchio continente sponsorizzando l’auto elettrica per la quale è in possesso quasi esclusivo di tutte le materie prime necessarie per costruire batterie e motori elettrici.

Che la Cina abbia un controllo forte di miniere e materie prime è vero: la Repubblica Popolare lavora da anni in una sorta di “colonizzazione commerciale” dell’Africa: ovvero realizza infrastrutture in cambio di un accesso privilegiato alle risorse.

Quello che però dovrebbe far riflettere è che la decisione europea, se letta nel dettaglio, potrebbe tagliar fuori anche i cinesi: leggendo sia il Green Deal sia il fit for 55 si parla spesso non solo di auto elettriche, ma di riportare le fabbriche in Europa, di sfruttare le miniere europee, di cercarne di nuove, di costruire gigafactory e quant’altro. Per quanto sono progetti più sulla carta, o addirittura fallimentari come si è visto per BritishVolt, una direzione del genere, tutta votata all’indipendenza, difficilmente potrebbe far piacere ai cinesi.

Riciclo delle batterie
Riciclo delle batterie

Ancora una volta, nell’idea di chi scrive, non è tanto un problema di ingerenze, quanto più un problema di sguardo cieco che si è concentrato solo sulle auto, e meno su altro. Una cosa non esclude l’altra comunque, e questo vale tanto per le industrie quanto per le emissioni. Un altro tema ricorrente emerso dall’intervista è quello delle responsabilità, di una mentalità un po’ lasciva. Citiamo:

L’industria ha bisogno di competitività (quella energetica è sicuramente al primo posto), non di sussidi che creano insane distorsioni di mercato: l’attuale politica energetica europea è invece l’essenza dell’anti competitività a partire dagli oneri ETS, passando da una decarbonizzazione costosissima quanto insensata visto e considerato che l’Europa emette solo l’8% di tutte le emissioni mondiali di CO2 quando Cina e India hanno oramai superato il 50%

Anche in questo caso, i dati riportati sono quasi interamente giusti. Stando al report del Sole 24 Ore, la Cina è effettivamente il Paese al mondo che emette più emissioni di CO2: 12.466 tonnellate nel 2021, anno in cui ha contribuito al 33% delle emissioni globali. Seguono gli USA, con 4752 tonnellate (12,5%) e al terzo posto l’Unione Europea, che come dice il manager contribuisce a poco meno dell’8% delle emissioni globali. L’India è subito dopo, con il 7%, e quindi Cina e India da sole fanno il 40% di tutte le emissioni.

Numeri alti e importanti, non si discute. Ma una cosa non esclude l’altra: l’8% è comunque un numero alto, e il fatto che ci siano paesi che inquinano più dell’Europa non dovrebbe portare a lasciar perdere, ma quantomeno a “fare il nostro”. Oltre al fatto che all’ultimo Cop27 in Egitto per la prima volta Cina e India sono stati come messi all’angolo, e almeno a parole “obbligati” a ridurre le emissioni. Ma si sa che tra il dire e il fare…

Tornando a noi, lo stesso report, per esempio, riporta che nel 2021 le emissioni UE sono aumentate del 6,5% rispetto al 2020, a causa dei vari lockdown, ma sono diminuite del 5% rispetto al 2019, e addirittura del 30% rispetto agli anni Novanta. Questi risultati importanti non sono stati certamente raggiunti senza fare nulla, ma con politiche ecologiche che i vari paesi, e qui l’Italia è tra le eccellenze, hanno adottato. Tra cui, tra l’altro, motori endotermici sensibilmente più efficienti: su questo in effetti si dovrebbe riflettere.

L’invasione si può fermare

Veniamo al dunque: si può parlare di invasione? Al momento i costruttori cinesi sono indubbiamente avvantaggiati: sviluppano l’elettrico da anni, hanno non pochi soldi, e d’altro canto hanno comprato diversi marchi europei. Pensiamo solo a Geely: in 10 anni ha comprato Volvo, Lotus, Polestar, Smart (50%), Benelli, e ha azioni di maggioranza di Renault Trucks, Aston Martin e Daimler AG, oltre ad avere quote non da poco anche nel gruppo Renault. Great Wall ha quote di Mini e una joint venture con BMW, SAIC ha rilevato il marchio MG Motors, Evergrande ha preso Saab da General Motors, anche se in questo caso si può parlare di fallimento più che di rilancio.

Volvo EX90

Quindi un ingresso attraverso storici marchi europei in decadenza, rilanciati però con successo e Volvo è il caso più emblematico; ma anche un ingresso tramite accordi, come il caso del gruppo DR Automobili; fino all’ingresso diretto, come nel caso di BYD, Aiways, Seres, Hongqi, Nio e Xpeng, anche con tecnologie più evolute come il battery swapping.

C’è poi da considerare che sono quasi sempre partiti da paesi più facili: tutti i marchi cinesi passano prima dalla Norvegia, Paese dove già ora più di metà dell’immatricolato nuovo è elettrico e che per i cinesi ha la grande qualità di non avere una sua industria automobilistica.

Xpeng G9

Ci sono però fattori che indicano che alcuni costruttori europei hanno preso la strada giusta: Stellantis e Volkswagen si contendono la leadership delle vendite elettriche europee, ed entrambi dominano la top 10 rispettivamente con 3 modelli: Fiat 500e, Peugeot e-208 e Opel Mokka-e per il primo; Volkswagen ID.3 e ID.4 e Skoda Enyaq iV per il secondo.

In entrambi i casi si parla di produzioni abbastanza patriottiche: la 500 per esempio è prodotta interamente in Italia. L’unica presente in classifica che si può considerare cinese è la Polestar 2, curiosamente un modello premium e fuori dalle alternative economiche di MG o Aiways.

Fiat 500 La Prima by Bocelli
Fiat 500 La Prima by Bocelli

Questo significa che i produttori europei hanno tutte le possibilità di contrastare i cinesi, anche sull’elettrico: da una parte smettendo di lamentarsi, specialmente se prima non hanno mai fatto nulla per andare contro certe decisioni; dall’altra possono contare sul loro nome, sulla rete di assistenza.

Finanche agli investimenti europei, che includono anche la European Battery Alliance: fino a 9 miliardi di euro per la catena del valore delle batterie made in Europe, mossa sbloccata proprio per fermare l’avanzata di Pechino.

Tra l’altro, qui l’Italia ha un ruolo da protagonista: di oltre 150 partecipanti, quasi la metà è composto da aziende italiane o con sede in Italia: per citarne alcune, Enel X, Engitec, Italmach Chemicals, FCA Italy, Midac, Manz Italia, Fluorsid e Solvay Italia. Saremo forse troppo ingenui, ma sarebbero azioni un po’ rischiose se dovessero esserci davvero pressioni cinesi.

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